“Je suis Charlie”, dice in questi giorni l’Occidente con gli occhi lucidi e la matita in mano.
“Mais aussi non” (traduzione letterale del più familiare “ma anche no”), aggiungiamo noi che
la matita in mano e gli occhi lucidi li portiamo da una vita. Occhi lucidi di rabbia per esserci
trovati troppe volte soli con le nostre vignette a dire che la libertà d’espressione va tutelata
tutta, non solo quella che risponde alle logiche del politically correct. Anche perché, molto
probabilmente, proprio per via di quelle logiche – così glamour presso i salotti buoni del
gauchismo radical chic – la nostra porzione di mondo s’è giocata a poco a poco la propria
identità. Per un peloso principio di tolleranza. Per una malintesa idea di solidarietà che ci ha
portato a discutere persino sull’opportunità di mantenere o meno il crocifisso nelle aule delle
nostre scuole. Ci siamo preoccupati di non urtare la sensibilità degli alunni di fede islamica
fregandocene alla grande di quella dei nostri figli. Abbiamo usato massima premura per le
tradizioni culturali e religiose altrui e totale incuria – ai limiti del disprezzo – per quelle dei
nostri ragazzi, condannati a un futuro d’incertezze. Costretti persino a rinunciare al concetto
primigenio di padre e madre – brutalmente declassati in anonimi genitori A e B – in delirante
ossequio a quel dogma del buonismo e del rispetto che però vale solo per noi e non per chi
arriva nel nostro Paese, magari a bordo di una carretta del mare.
Il risultato? Semplice: ci siamo smarriti. E siamo diventati estremamente vulnerabili. Il nostro
nemico lo sa bene e ci colpisce, oltre che coi kalashnikov, anche con un’arma più sottile e
molto più potente: quella del proselitismo. è per questo che non deve stupire se quelli che
oggi fanno una strage in redazione o sul metrò hanno il passaporto europeo in tasca. O se tra
coloro che ingrossano le fila dell’esercito di volontari dell’Isis ci sono ragazzi che partono dal
Vecchio Continente e persino dagli Stati Uniti: convertire un giovane che non ha più identità e
dargli una ragione per cui vivere e morire è notoriamente un gioco da ragazzi. Ma l’Occidente
di tutto questo se ne impippa. E anche stavolta non coglierà occasione per fare una doverosa
autocritica. Per mettere magari in discussione una buona volta il mito del multiculturalismo,
prendendo atto che esistono culture probabilmente incompatibili tra loro. Per smetterla con
l’ingerenza – interessata da ragioni economiche più che di solidarietà – negli affari dei Paesi
del Medioriente e rendersi conto che diventa sempre più grottesco l’intendimento di voler
esportare il nostro modello esistenziale – cioè quel che resta dei nostri valori e della nostra
libertà – presso popoli che a suon di bombe e a ritmo di mitraglia dimostrano regolarmente
di detestare tutto il pacchetto. Invece no. Non ci sarà nessuna autocritica. Nessuna marcia
indietro. Molto più semplice mettersi una matita in mano, schierarsi per una settimana
a fianco della satira e della libertà d’espressione e poi riprendere, come di consueto, a
stigmatizzare e possibilmente querelare tutti coloro che quella satira la fanno e quella libertà
la esercitano per provare a dissacrare il tempio del politicamente corretto.
No, ad “essere Charlie” non sono certo questi campioni d’ipocrisia, ma solo quei pochi – come
noi di Candido – che provano ad esserlo ogni giorno. Noi che Charlie in fondo non lo siamo mai
stati, perché prendercela coi simboli religiosi non ci è mai piaciuto granché. Ma che vorremmo
vivere in un Paese dove chi decide di farlo non rischia una denuncia dei benpensanti o, peggio
ancora, una mitragliata eslposa da nemici allevati e coccolati in casa.
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