La leggenda ellenica della mitologia di Tsipras narra che agli albori dell’anno Domini
2015 le truppe ateniesi si ritrovarono finalmente nelle condizioni necessarie per sferrare
l’attacco decisivo al fortino, assediato da anni ma inespugnabile, dei nemici di sempre: i
potentissimi custodi della città di Troika, capitale del regno dell’austerity, sul cui trono sedeva
incontrastata la perfida Angela. Per un attimo l’entusiasmo di tutti gli euroscettici del vecchio
continente riuscì a raggiungere livelli mai neppure sfiorati prima.
Il mito di Alexīs – l’ingegnere quaratenne eroe di Syriza che conquistò il comando dell’esercito
greco grazie alla retorica della cancellazione del debito e alla promessa di un rovesciamento
totale dei dogmi di Bruxelles – si diffuse in un lampo ovunque. Tutti lo evocavano. Da sinistra
e da destra. Tutti lo osannavano cantandone le gesta. Roba che il vecchio Ulisse, paragonato a
lui, passava per un naufrago sfigato: una sorta di Schettino ante litteram finito nei casini nel
goffo tentativo di fare un inchino all’isola dei Ciclopi. Solo in Alexīs erano riposte le ultime
speranze di vedere il popolo europeo affrancarsi dalla sottomissione al potere delle banche e
sottrarsi dalle grinfie di quella stramaledetta Troika della Merkel.
Le premesse, del resto, sembravano esserci tutte e quel tono da rivoluzionario oltranzista di
Tsipras risultava persino più seducente della mitica Domnica, la sirena moldava del naufrago
sfigato di cui sopra. Fu così che, in breve tempo, il nostro novello Odisseo poté contare su un
trasversale e variegato esercito che metteva assieme uomini, brigate e compagnie distanti
anni luce tra di loro: dalla baldanzosa armata post-padana di Salvini, alla sparuta pattuglia di
Vendola e i suoi Proci. Dalla legione gallica della Le Pen alla divisione ispanica di Podemos,
fino a quella britannica di Farage. La storia riporta che fin dal primo istante in cui l’omerico
Tsipras levava verso l’Olimpo l’arma di guerra del 36,34 percento, i generali della trasversale
armata dei nemici di Strasburgo si dimostravano ansiosi di infilarsi, armi e bagagli, nel ventre
ligneo di quella mitica macchina da guerra che sarebbe passata ai posteri come il leggendario
“Cavallo di Troika”. L’intendimento nobile era quello di sfruttare la galoppata trionfale
dell’eroe greco per espugnare la tirannia berlinocentrica giocando sul celeberrimo effetto
sorpresa. Ma proprio quando il piano sembrava già cosa fatta e la spedizione si apprestava
a partire, lo spaventoso colpo di scena: “Mi ispirerò a Matteo Renzi, insieme ‘cambieremo
verso’ all’Europa”. Queste le incredibili parole pronunciate dal giovane Tsipras. E il suo
declassamento sul campo, da eroe omerico a qualcosa di simile a un Chucky di Happy Days
(il cuginastro-assistente di Fonzie) fu praticamente immediato. Così come istantaneo fu il
diffondersi dell’agghiacciante sospetto che la rivoluzione millantata da Tsipras altro non fosse
che la declinazione in salsa continentale della rottamazione renziana: una gigantesca bufala
acchiappadissenso utile solo a fare il pieno di voti in campagna elettorale. Dubbio consolidato
proprio dall’esempio italiano. Paese in cui il “cambia verso” renziano si era tradotto in un
continuo temporeggiamento di democristiana memoria. In pratica l’unica rottamazione, per
giunta parziale, che il premier italico aveva portato a termine era quella del povero Bersani,
uno che a rottamarsi era bravissimo da solo.
La fine della leggenda greca è ancora avvolta dal mistero. Qualcuno sostiene che il mitico
cavallo di Troika si traformò in un gigantesco somaro e che alla corte di Angela finirono tutti
per farsela sotto. Sì, ma dalle risate.
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